17 febbraio 2009

il misantropo di moliere'...corse di teatro...

bellissimo modulo di teatro...lo spettacolo ci sara' il 16 marzo...potete anche nn venire...hihihihi...

Il Misantropo di Molière è una commedia del 1666 in cinque atti ed è considerata uno dei suoi capolavori.

LA TRAMA

- Nel salotto della bella Celimena, una deliziosa e frivola vedova che conosce mille e una astuzia per legare a sé gli uomini, due amici ragionano tra loro, mentre attendono l'arrivo della dama.
I due sono Alceste e Filinto, si stimano e sono legati da amicizia, ma non per questo hanno le stesse idee sul modo in cui deve comportarsi in società un gentiluomo. Filinto, indulgente e accomodante per natura, afferma che un briciolo di ipocrisia nei rapporti umani non guasta mai, anzi è proprio quel che ci vuole per stare in buona armonia con il prossimo: molte volte la verità è inopportuna e crudele.
Alceste non la pensa così: è un uomo rigido e intransigente fino agli estremi, non ammette assolutamente che si debba mentire per il quieto vivere nostro e degli altri. Se uno è mediocre, è giusto che sappia della propria mediocrità, se uno è un seccatore, occorre dirglielo ben chiaro anziché lasciarsi rintronare i timpani delle sue chiacchiere: solo in tal modo molta gente smetterebbe di comportarsi in maniera sciocca e inopportuna. Invano Filinto tenta di convincerlo che la sua sincerità rischia di procurargli solo guai: la verità nuda e cruda di solito non è ben accetta alla maggioranza degli uomini. Ma Alceste, piuttosto che mancare ai suoi principi, si dichiara pronto a romperla con il genere umano, a trasformarsi in un misantropo.
A questo punto l'amico Filinto non può fare a meno di fargli osservare che l'oggetto dei suoi sogni, Celimena, maldicente e civettuola com'è, è proprio l'opposto del suo ideale di perfezione. Ahimè! Filinto ha colpito nel segno, questa è la grande debolezza di Alceste: egli ama, suo malgrado, una creatura che è il compendio di tutti i difetti che egli biasima, e tuttavia non può sottrarsi al suo fascino. La ragione lo spingerebbe a disprezzarla o almeno a dimenticarla, ma come tutti sanno, (forse), non è la ragione che detta legge in amore.
Mentre i due amici parlano ecco arrivare un certo Oronte, classico esemplare di stolto vanitoso. Costui si rivolge ad Alceste per chiedere il suo parere su alcuni versi che ha composto: è tale la fama di integrità di Alceste che solo il suo giudizio può ritenersi obiettivo e sicuro. Invano Alceste tenta di schermirsi: Oronte è impaziente di declamare il proprio sonetto, sicuro, nella sua presunzione, di ottenere gli elogi del rigido Misantropo.
Terminata la lettura degli orribili versi, Filinto si affretta a proclamarli un capolavoro degno dell'immortalità; Oronte gongola, ma Alceste non riesce a trattenersi, naturalmente, e spiattella la verità: i versi sono pietosi, roba da mettere in fondo ad un cassetto e lasciare lì sepolta.
Oronte si offende, si sente un genio incompreso, ribatte con stizza, ma Alceste rimane duro come una roccia("andate a cercare incensamenti altrove") e invano Filinto cerca di rappacificare gli animi; Oronte se ne va, ma la disputa non finirà lì.
Compare Celimena, e Alceste, spaventosa,mente coerente alle sue idee anche a costo di disgustare la donna che ama, la aggredisce subito in nome della verità…
"Signora, mi permette di parlarle con franchezza? Non sono affatto contento della vostra condotta; mi spinge alla esasperazione, e sento che dovremo venire a una rottura…"
Celimena ha troppi corteggiatori e Alceste non lo può sopportare: una volta per tutte essa deve decidersi e smetterla di volteggiare da uno spasimante all'altro. Mentre i due "battibeccano", ecco sopraggiungere Basco e Clitandro, due nobilotti profumati, azzimati e desiderosi di conquistare l'amore della bella Celimena. Al gruppo si uniscono anche Filinto e Elianta, cugina di Celimena. A questo punto la conversazione diventa generale, si scivola nel frivolo, e Celimena, con la leggerezza crudele della bella donna viziata, fa un ritratto spietatamente vero di alcuni suoi amici assenti. La satira è gustosa e i presenti ridono e applaudono Celimena. Solo Alceste esplode indignato…
"Avanti, forza, continuate!… Voi non risparmiate nessuno, e, a uno ad uno, tocca a tutti. E tuttavia non c'è nessuno di loro che si faccia avanti senza che si veda corrergli incontro, stringergli la mano e confermare con baci e abbracci il vostro ossequio.".
Gli altri ribattono, prendendo le difese di Celimena, la discussione sta per farsi aspra, quando giunge un messo del tribunale: Alceste è atteso davanti ai magistrati per appianare il suo incidente con Oronte. Alceste va, ben deciso, s'intende, a non cedere minimamente…
"A meno che non mi venga un ordine diretto di sua maestà di trovare buoni questi versi, che danno tanto da fare, io sosterrò sempre, perbacco, che sono indegni e che chi li ha fatti merita la forca!"
Poco dopo, Celimena riceve la visita della signora Arsinoe, il prototipo della "buona amica". L'esordio è al miele: per l'amicizia che porta alla cara Celimena, Arsinoe ha ritenuto suo dovere informarla che presso persone di "grande virtù" la sua condotta, le sue galanterie hanno la disgrazia di non essere lodate. Naturalmente ella si è subito schierata dalla parte dell'amica, ha fatto quello che ha potuto per difenderla, ma… Celimena ascolta con aria compresa e compunta, poi risponde: è profondamente obbligata per l'avvertimento, e vuole subito ricambiare il favore dando a sua volta un consiglio all'amica…
"L'altro giorno ero in visita da persone di grandissimo merito, le quali… fecero cadere il discorso su di voi. Ebbene, i vostri modi, la vostra austerità ostentata, i vostri sfoggi di zelo non furono precisamente citati come modello; codesta affettazione di gravità, i vostri eterni discorsi di saggezza e di virtù, le vostre smorfiette, i vostri gridarelli a ciò che può apparire indecente nell'innocenza di una parola un po' ambigua, l'ala stima in cui vi tenete, le occhiate di compatimento che distribuite in giro, la vostra smania di dar lezioni, le vostre acide censure su cose pure e innocenti, tutto questo, insomma, e devo parlar francamente, fu biasimato all'unanimità, signora…"
Arsinoe è troppo falsamente per bene per indignarsi apertamente: si finge dolorosamente stupita per queste parole, ma già nella sua mente medita furiosamente la vendetta.
La possibilità di vendicarsi le si presenta poco dopo, quando rientra Alceste e Celimena esce, lasciandola sola con l'uomo. Arsinoe cerca subito di conquistarsi la simpatia di Alceste, incensando abbondantemente le sue virtù e il suo valore; ma presto comprende di aver scelto la strada sbagliata, perché Alceste risponde brusco, mostrando chiaramente che gli elogi lo infastidiscono. Pronta e abile "virata" di Arsinoe…
"Ebbene, lasciamo, se lo desiderate, questo argomento… ma il mio cuore deve compiangervi per il vostro amore; e, per dirvi tutto il mio pensiero, sarei proprio felice se il vostro ardore fosse meglio riposto. Voi meritate una sorte molto più dolce, e colei che vi ha affascinato è indegna di voi.".
Che intendete dire? Chiede Alceste: si rende conto che sta parlando di una sua amica?
Certo, risponde l'altra, ma la sua coscienza non le permette di assistere in silenzio al tradimento da parte di Celimena dell'amore di Alceste; se egli la accompagnerà a casa, gli mostrerà una prova dell'infedeltà di Celimena ed eventualmente gli offrirà il modo di consolarsi. Alceste, dubbioso, va, e Arsinoe gli mette la mano una lettera scritta da Celimena a Oronte, il bellimbusto autore di ignobili versi.
La lettera è solo amichevole, ma per Alceste il colpo è atroce; corre stravolto dalla saggia Elianta per sfogare il proprio dolore, e, nell'impeto dello sdegno, offre ilo suo amore alla fanciulla.
Elianta però ha molti buoni motivi per rifiutare: innanzitutto ama Filinto; poi comprende che Alceste le si è dichiarato solo per vendicarsi di Celimena; e infine, saggia e chiaroveggente com'è, prevede che la collera di Alceste sbollirà presto ed egli tornerà ad amare Celimena. Giusto in quel momento (nelle commedie del '600 non si badava molto a qualche incongruenza) arrivava Celimena, tranquilla e serena.
Alceste l'aggredisce sventolandole davanti al viso la lettera; grida, smania, l'invita a discolparsi.
Celimena, impassibile, non pensa nemmeno a difendersi: sì, ha scritto lei quel biglietto a Oronte, perché Oronte le è simpatico. Non c'è altro, e infatti nel biglietto non si parla d'amore. E d'altra parte, che autorità ha su di lei Alceste per osare di aggredirla, rimproverarla, insulta? Lei, fino a prova contraria, è liberissima di fare quello che vuole e, se il suo cuore avesse qualche altra inclinazione, perché non dovrebbe dirglielo sinceramente? E' chiaro che la gelosia rende pazzo Alceste. Egli meriterebbe che veramente lei gli desse motivo di lamentarsi e di indignarsi.
A questo punto, piccolo colpo di scena: irrompe in scena Dubois, il servitore di Alceste, e comunica al padrone che deve andarsene in tutta fretta dalla città; un tizio, con il quale da tempo era in lite, ha vinto con l'imbroglio la causa ed è riuscito a far spiccare contro di lui un mandato di arresto.
Alceste è veramente avvilito, disgustato del mondo intero. Potrebbe ricorrere contro la condanna con buone probabilità di spuntarla, ma decide di non farlo. La nausea e l'amarezza soffocano in lui il desiderio di vincere, di combattere l'ingiustizia. Se ne andrà lontano dal mondo, per vivere in solitudine. Prima però deve sapere se Celimena è disposta a seguirlo nel suo esilio, senza rimpianti. Celimena si è pentita di averlo fatto soffrire, riconosce di essere stata civetta e crudele e decide di sposarlo. Ma quando Alceste le chiede di seguirlo lontano dal mondo, la giovane donna rifiuta…
"Io rinunciare alla società nel fiore degli anni e andarmi a seppellire nella vostra solitudine?… La solitudine sgomenta n'anima di vent'anni: io non sento la mia abbastanza magnanima e forte per risolvermi a una decisione come questa…".
Alceste è rimasto solo: rinuncia definitivamente alla mano di Celimena e va a cercare nel mondo un angolo appartato dove possa avere piena libertà di essere un uomo d'onore.



MORI' SUL PALCOSCENICO
La sera del 17 febbraio 1673, il bel mondo parigino si era dato convegno al teatro Palais Royal per applaudire "Il malato immaginario" di Molière: l'autore stesso vi recitava la parte di Argante che nella finzione scenica era, per l'appunto, il "malato immaginario".

Molière non era un grande attore, ma quella sera la sua recitazione era realistica in maniera impressionante: la febbre che lo divorava, i tremiti che lo scuotevano non erano per nulla immaginari; Molière era agli estremi, lo sentiva, e solo il suo smisurato amore per il teatro lo aveva condotto anche quella sera sul palcoscenico.
La rappresentazione volgeva al termine quando Argante si accasciò per terra: la commedia era diventata tragica realtà. Molière morì poche ore dopo. Aveva dedicato la sua vita al teatro e non volle concluderla lontano da quel magico mondo.
Jean-Baptiste Poquelin (questo era il nome vero di Molière) era nato a Parigi ai primi di gennaio del 1622 da una famiglia di piccoli borghesi.
Aveva vent'anni quando decise di diventare attore e per farlo senza offendere l'onorabilità del nome paterno (a quei tempi il mestiere di attore era piuttosto disprezzato), non esitò a cambiare nome, rinunciando nello stesso tempo alla comoda cita che il patrimonio paterno gli avrebbe assicurato.
Assieme ad alcuni amici fondò l'"Illustre Theatre" e si sottopose al durissimo tirocinio degli spettacoli in provincia. Finì anche in prigione per debiti.
Ma nel 1658 ebbe la "grande occasione": quella di recitare a Parigi alla presenza del re; da quel momento le sue difficoltà finirono ed egli divenne l'autore più famoso di tutta la Francia.


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